L’abbiamo già detto Viva l’Italia che fa il videogioco??? E lo ripetiamo. Non solo perché ci fa sempre piacere quando possiamo vantarci di qualcosa di ITALICVS che non sia la pizza colla pummarola ‘ngoppa, il cuppolone del Bernini che ci puoi pure cacare sopra con Ezio Auditore (si dice così?), i film con Martufello e Nina Moric o, per i romantici e nostalgici, il gassare gli eritrei. Ci fa piacere a noi di Gioca Giuè in particolare perché il gioco di oggi è il gioco del nostro blasonatissimo The Elder!
Gli altri due terzi, Master Boot Record (storia e musiche, italiano anch’egli) e Valenberg (tutta la pixel art e le animazioni, tedesco), compongono assieme al nostro una piccola software house a cazzo durissimo, la Theta Division, che ha donato al mondo un gioiello curato nei più minimi dettagli: l’avventura punta e clicca VirtuaVerse.
VirtuaVerse è una lettera d’amore a un passato collettivo di una cerchia di nerd cresciuti tra anni ’80 e 90 in mezzo a una serie molto ben definita di suggestioni. Partiamo da queste? Il citazionismo, che di solito mi sta sui coglioni perché usato come scorciatoia a buon mercato per conquistare il cuore e la mente del fruitore (qualcuno ha detto Ready Player One? l’ho detto io.), viene qui dosato con precisione millimetrica, mescolato con grande attenzione all’armonia dei sapori – salato, dolce, amaro, acido, umami, pizza mal digerita alle 4 del mattino e sigaro hondureño -, fritto in una pastella leggerissima e impiattato come se fosse un quadro. Ma no un quadro contemporaneo fatto sborrando sui giornali colla foto dell’impiccagione di Saddam Hussein (esistono, giuro). Un bel quadro di Jean Gerome, di Bosch, di Bruegel il Vecchio: una gioia per gli occhi e per il palato.
La musica ci riporta agli anni del LASER e del NEON, un po’ nel solco del neo synth wave revival che piaga YouTube da qualche anno a questa parte (ma almeno questa c’entra), la grafica è piena di Blade Runner, di Quinto Elemento, di Ghost in the Shell, di Matrix, di John Carpenter, ma anche di Monkey Island, di Beneath a Steel Sky, di Day of the Tentacle e di tante altre cose che essendo io un burino arricchito dalle multinazionali cresciuto al riparo da tutto non ho colto e mai coglierò. Nei dialoghi e nella trama c’è l’adolescenza degli autori, c’è la demoscene, c’è William Gibson, c’è Philip K. Dick (LOL), c’è anche tanta roba nuova però, che non vi sto a dire perché non voglio spoilerare nulla.
E appunto, la trama com’è? La trama è un classicone, prende molto da Neuromancer però rivedendolo col senno di poi del 2016 (il gioco è stato in gestazione per 4 anni), senza tanti dei manierismi gibsoniani che rendono la lettura zoppicante e con invece un po’ delle nostre angosce quotidiane – lo spam, l’identità digitale, i SITI PER APPUNTAMENTI, das kapital – e soprattutto con un’attenzione maniacale alla musica.
La musica è infatti uno dei protagonisti assoluti del gioco, non solo per quanto riguarda la colonna sonora vera e propria, ma anche perché una buona parte dei personaggi è musicista, è legato a una “scena”, ma non la scena quella lame degli skater de mmerda o degli OMOSESSUALI COLLA BARBA che cantano col banjo e le campanelle, parlo della scena prima della scena, quella che persino Gibson descriveva in un passaggio – piuttosto palloso – del suo romanzo parlando dei vari gruppi di hackers.
Writers, crackers, musicisti, persone al margine della socialità normale che vivevano e creavano arte – digitale e non – in un mondo anarcoide, e quindi in un (una?) internet anarcoide che gente come me a malapena conosce, ma che VirtuaVerse in qualche modo cerca di raccontarci: un internet preistorico, che ha splenduto (splenduto!?) molto prima delle minorenni con la quarta di reggiseno su TikTok, prima delle pagine del Signor Distruggere, prima di Alfonso Signorini: prima, insomma, che come umanità ci fossimo riuniti tutti sotto una sola bandiera per mostrare a noi stessi quanto facessimo schifo in una nuova iterazione dell’Eternal September.
E poi c’è la musica dal vivo: i concerti, i poster, le chitarrone, le battute sui bassisti e sui batteristi, la damnatio dei DIGGEI e delle PLAYLIST come alfieri del male. C’è voglia di raccontare e magari riscoprire una autonomia e una libertà di pensiero e di azione che oggi, con l’omologazione a più livelli – pensate alla transizione dai siti GeoCities pieni di dancing_baby.gif e spooky.png, a MySpace e la corrente glitter-goth, alla monotonia coatta di Facebook – sono ormai memoria di un passato rimasto in mente a pochi artisti e attivisti.
E qui mi tocca purtroppo fare la prima critica, che va ai dialoghi, che in qualche momento – ma questo temo sia un vizio italico – si dimenticano della lezione di Chekhov (il Baricco zarista) dello “show, don’t tell” che in un videogioco dovrebbe valere più che in ogni altro mezzo, visto che è come ci insegna il Franceschissimo Carlà è INTERATTIVO e MULTIMEDIALE. Ogni tanto i protagonisti si lanciano in brevi pipponi pseudo-nostalgisti sul come fosse meglio il mondo prima del futuro, su come la musica fosse musica e le persone fossero persone e insomma signora mia dove andremo a finire. Alcuni di questi dialoghi mi hanno dato la sensazione di leggere un Michele Serra cyberpunk, che per chi non lo sapesse ha una casa in centro a Milano direttamente sopra a un bar molto frequentato dai GIOVANI D’OGGI che lo tengono sveglio e lui diocane ha da dormire. Quindi, al suo risveglio, probabilmente il suo primo pensiero è “sui giovani d’oggi ci scatarro su” e batte le 100 parole della sua amaca in preda a una forma acuta di Gramellinismo.
In VirtuaVerse il protagonista (o altri comprimari) ti spiegano didascalicamente che “lo spam è brutto” e “ormai non ci va più nessuno ai concerti”, lasciando poco spazio all’interpretazione e alla sensazione del giocatore. In un mondo cyberpunk non mi aspetto di trovare una celebrazione del futuro – quasi tutta la fantascienza è iperbole del presente – perché tutto ciò che vedo è, o dovrebbe essere, in sé una critica e c’è un motivo se nelle mostre più riuscite non si trovano tanti cartellini che dicano “QUI L’ARTISTA VOLEVA CHE VI INDIGNASTE”.
Sempre nei dialoghi, in altri momenti i Theta Division hanno voluto mettere un po’ del loro vissuto personale, talvolta straboccando un pochino: in una scena che ha del paradossale un personaggio si mette a recitare linee di codice in assembly per spiegare come aggiungere un particolare effetto alle cracktro. Avevo già gli occhi pronti a esplodere quando, per fortuna, il protagonista mi legge nella mente e riporta tutti sul pianeta Terra. Phew! Molto più nelle mie corde invece la critica alla criptovaluta demmerda che nel futuro farà ancora schifo. Bravi!
Detto questo, che per me è il punto più debole di un gioco eccellente, il resto dei dialoghi è ottimo: essenziale, asciutto, con un tono adatto all’ambientazione e soprattutto, cosa che ho apprezzato moltissimo, estremamente context-aware. Non oso pensare che forma abbia il grafo che collega ogni oggetto a ogni situazione e relativa esclamazione del protagonista. Al posto di una serie blanda di frasi random “non ho intenzione di farlo” “non funziona” “mavafammocc” per farti capire che USA ESTINTORE SU BARBONE non ha senso (anche perché non stamo mica a ffa’ Kubrick), c’è molto spesso un riferimento all’azione precisa e al significato che questa avrebbe. E questa cura per i dettagli si vede in ogni angolo, in ogni animazione, in ogni dialogo e soprattutto in un aspetto che i Theta Division hanno curato forse più di ogni altro: il sound design.
Un buon sound design non è necessariamente evidente o ovvio, proprio perché rende l’esperienza coinvolgente e aumenta l’immersione dissolvendo lo spazio tra la nostra faccia e lo schermo. Tuttavia ho notato quanto il sonoro fosse curato in una parte del gioco in cui il protagonista passa dalla neve freshka freshka alla terra più dura ai pavimenti metallici, e cioè dal crock crock al ciasp ciasp al clink clink. Il vento cambia a seconda dell’ambiente, e in un tunnel diventa un vuuuuuuu mentre fuori è più un wooooshhhhh. Capito come? E poi la pioggia, i rumori di fondo della città, i bip bip, la musica live che cambia a seconda di quanto sei lontano dal palco e di quanti muri ti separano dagli speaker. Sentir mangiare un ciccione al kaitenzushi mi ha fatto venire fame. Tutto questo è stato curato semplicemente alla perfezione. Manca soltanto un voice acting degno dei giochi Wadjet Eye (vedi: Primordia) e avrei direttamente fatto la crema nei pantaloni! ahahahah scherzo, in quarantena chi cazzo se li mette più i pantaloni!!!
Cos’altro è perfetto? La grafica. La pixel art di Valenberg è semplicemente perfetta. Non è una grafica retronostalgica, anche se pesca a piene mani dalle avventure Lucasarts. È “vecchia”, nel senso che è pixel art, ma è “nuova” sia come stile, sia come palettes, sia come capacità di usare luci e ombre: una feature praticamente impossibile da ottenere con MS Paint, ma alla portata di un Photoshop odierno. C’è una profondità e una quantità di dettagli veramente impressionante, e ogni scena potrebbe esistere come loop animato o come poster e farti fare una bellissima figura con amici e parenti. Gli sprites sono tanti e sono unici, non c’è stato nessun risparmio e nessuna scorciatoia e quindi BRAVO Valenberg, anzi no TI ODIO perché sei bravissimo.
Nient’altro? Ma certo, ci stiamo dimenticando del lavoro del nostro Elder, che ha riscritto l’engine da zero. E funziona veramente bene: è leggero, ha pochi fronzoli visibili (non è uno SCUMM che occupa metà schermo per elencare azioni tipo parla con – usa per – deridi attraverso – infanga a causa di) e soprattutto assicura la quasi totale mancanza di pixel hunting grazie ad aree attive abbastanza generose. L’idea del visore di realtà aumentata è implementata molto bene e fornisce un livello narrativo e visuale assolutamente fondamentale per restituire con immediatezza (la stessa immediatezza che ogni tanto i dialoghi trascurano) l’oppressività della rete del futuro. Forse è un peccato che questo visore sia usato a livello di gameplay solo in alcune parti specifiche, ma fornisce comunque un sottotesto continuo e variabile che, se mi permettete la BATTUTA DI SPIRITO, “aumenta la realtà”!!! L’inventario è semplice e consente anche un po’ di combinazioni e il CRAFTING che piace tanto a voi nerd di merda. Per il resto c’è tutto quel che serve, quindi un BRAVO a The Elder che ha fatto un lavoro di fino come un artigiano della qualità.
Qual è l’altra critica? Te la dico subito, Ivan: che gli enigmi a volte sono un po’ stiracchiati e ti fanno venire il FEGATO GRASSO per la frustrazione. Chiaramente noi poveri pirla siamo stati abituati a giochi di nuova generazione in cui ogni cosa è illuminata, tanto che a volte gli adventure, gli FPS, e persino gli strategici diventano giochi di premere X. I Theta Division sono voluti andare a cazzo durissimo contro questa deboscia moderna per cui non esistono le transizioni veloci, non esiste l’evidenziazione degli hotspot, e non esistono i suggeritori dietro le quinte (come in alcune avventure grafiche in cui il comprimario, stanco della nostra palese incompetenza, ci dice: “va bene senti vai da COSO e chiedigli X (TERZA SCELTA DEL DIALOGO) e poi continuiamo ‘sta cosa dai su”), e a volte se sei stato così scemo da non tenerti a mano carta e penna nei momenti importanti ti tocca rivedere intere sequenze. Capito come?
Questa è una scelta innanzitutto politica e filosofica prima ancora che di gameplay, che Master Boot Record e The Elder difendono a spada tratta nelle discussioni pubbliche. Il problema è che a volte questa scelta ti va in culo nel momento i cui – vado a memoria – per avere un oggetto necessario ad avanzare devi tornare indietro di due/tre scenari, poi tornare, poi te ne manca un altro, e insomma alle volte sembra che gli autori ti vogliano dire HAI VISTO CHE BELLI GLI SCENARI? NO? ASPETTA; TE LI FACCIO RIATTRAVERSARE. HAI VISTO ORA??? Altri enigmi soffrono di cosiddetta MOON LOGIC, cioè una catena di cause e conseguenze chiara soltanto agli autori, e che quando ci arrivi (talvolta provando cose a caso, perché le scelte apparentemente logiche “non funzionano”) dici “ah! ma annatevela a pijà nder culo”, chiudi tutto e riprendi in mano il corso di algebra convessa che è più rilassante. Questi momenti sono pochi, ma ci sono, ed è vero che nelle avventure grafiche bisogna LEGGERE, GUARDARE ed ESPLORARE per trovare gli indizi, ma dovete anche capire che tra i beta tester c’era Pikkiomania e quindi, se quello è il loro benchmark degli esseri umani, siamo a posto siamo.
Un’altra menzione d’onore la merita di nuovo la musica, non in quanto sound design né in quanto argomento e sottotesto, ma proprio la colonna sonora, prodotta da Master Boot Record. È la musica perfetta per accompagnare la pixel art: anche questa è “vecchia” perché riprende tonalità 80-90-neon-synth (menzione speciale anche a un pezzo chiptune [/SPOILER]) ma anche “nuova” perché si avvicina più ai lavori di Carpenter Brut, ma meno cafone. Non è un caso che il gioco sia stato prodotto dall’etichetta finnica Blood Records, che tra gli altri produce Tommy ’86 e Perturbator. La colonna sonora cambia a seconda dell’ambiente, e forse la mia preferita è quella della mappa per spostarsi: dinamica, giovane, ma rispettosa della tradizione e attenta ai valori di una volta. Insomma, la soundtrack a mio modestissimo parere è il risultato di un frullato e distillato del meglio dell’estetica di Katana Zero/Hotline Miami/Mother Russia Bleeds: NEON, CROMO, CREPUSCOLO e PIOGGIA.
Bene, mi sono rotto il cazzo di scrivere e a questo punto non posso che consigliare di spendere tutti i bisondollari che vi chiedono, regalatelo agli amici, fate come vi pare. È un bel gioco della tradizione curato alla perfezione e pieno di livelli altissimi di creatività e tecnica, è una produzione di amici degli amici MA gli ho pure fatto una recensione mezza critica quindi approfittate di questo INSOSPETTABILE nonché IRRIPETIBILE momento di ONESTÀ INTELLETTUALE.
Uscite i soldi che tanto non sapete in che altro modo spenderli, e buona quarantena a tutti.