Dopo aver analizzato le scelte morali banali e pretenziose di Spec Ops: The Line, vi parliamo di Paper, Please gioco indie appena uscito ( scontato del 20% fino al 2 settembre su Steam, parte della promozione di Steam Greenlight, approfittatene!) che cerca di porti di fronte ad una situazione realmente presa a male come la burocrazia più distopica. Per scoprire come e se ci riesce leggetevi la recensione del nostro pixeloso ospite Gomez! (ndr PikkioMania)
Qualche anno fa – diciamo intorno al 2008-2009, quindi più o meno a metà di quella che sta per diventare la previous-gen delle console – nei videogiochi di fascia AAA andavano molto di moda i cosiddetti “sistemi morali”, ovvero la possibilità di posizionare il proprio personaggio su un asse Bene – Male: se aiutavi il cucciolo di cagnolino il tuo personaggio diventava un po’ più buono, se facevi saltare in aria l’orfanotrofio diventavi un po’ più malvagio. Questo tipo di “feature” (le cui origini, in realtà, si possono far risalire perlomeno fino a Ultima IV) mi ha sempre lasciato un po’ freddo: un po’ perché il confine tra il bene e il male in genere è tracciato con la solita accetta da 4 tonnellate dei giochi AAA (come ben illustrato in questa vignetta di penny arcade), un po’ perché i risultati delle scelte spesso non hanno molto peso effettivo nel gameplay, un po’ perché il giocatore viene incoraggiato a percorrere fino in fondo la strada che porta all’estremo “Bene” o all’estremo “Male” dell’asse morale, visto che è proprio sui due estremi che si ottengono i risultati più soddisfacenti (in termini di gameplay, ma anche semplicemente di cutscene, o di finale buono/finale cattivo): quindi quello che doveva essere un momento in cui il giocatore è libero di scegliere in base alla propria inclinazione, diventa l’ennesimo momento in cui il giocatore deve percorrere a testa bassa il percorso tracciato dal game designer: hai voluto essere buono? E ora ti tocca essere buono fino in fondo, altrimenti non arriva il finale buono. Per non parlare del fatto che nella maggior parte dei casi i due “percorsi morali”, buono e malvagio, vengono messi esattamente sullo stesso piano, a livello di difficoltà: la scelta di essere buono non “costa” al giocatore più di quella di essere cattivo, e questo stride con la nostra nozione elementare che “comportarsi male” nella maggior parte dei casi significa dare la priorità al nostro vantaggio immediato a spese di quello altrui.
Il protagonista di Papers, please è un agente di frontiera dell’immaginaria repubblica para-sovietica di Arstotzka nei primi anni ’80, e deve esaminare i documenti delle persone che vogliono passare il confine, decidendo chi fare entrare e chi respingere. La meccanica di gioco principale consiste nel trascinare i documenti del potenziale immigrante sulla propria scrivania virtuale, controllare se ci sono anomalie, timbrare il passaporto con un timbro verde (approvato) o rosso (respinto) e restituirlo all’interessato. Alla fine di ogni giornata di lavoro, che dura circa sei minuti di tempo reale, si riceve una paga proporzionale al numero di immigranti correttamente processati in base alle regole stabilite dal Ministero dell’Immigrazione. Per ogni errore, invece, vengono trattenuti soldi dalla busta paga. I soldi servono a mantenere la propria famiglia, i cui membri possono morire se non si hanno abbastanza soldi per pagare il riscaldamento o il cibo. L’interfaccia è volutamente scomoda, in modo quasi snervante: ma il gioco ne è perfettamente cosciente, visto che da un certo punto in poi diventano disponibili degli upgrade a pagamento per la propria postazione, che consistono in scorciatoie da tastiera che semplificano enormemente la vita del giocatore.

I miei primi giorni (giorni del gioco) sono un disastro, anche perché gioco con il touchpad, a cui non sono affatto abituato: sono lento, processo pochissimi immigranti e quindi vengo pagato poco; in più faccio errori, e quindi mi vengono tolti dei soldi dalla busta paga. Lo zio muore quasi subito, perché non ho soldi per pagare il riscaldamento e le medicine. Neanche gli altri membri della famiglia se la passano troppo bene. Alcuni giorni vengono interrotti anzitempo da attacchi terroristici, rappresentati con una crudezza stilizzata molto più angosciante di qualsiasi No Russian. In questi giorni guadagno ancora meno, perché lavoro meno ore (virtuali) e riesco a processare meno gente. Il senso di oppressione che provo è reale: sono abituato a giochi che mi danno un bell’achievement per aver completato un tutorial in cui mi spiegano si salta con il tasto A; qui invece sto dando del mio meglio ed ho fatto morire mio zio. Intanto, in risposta agli attentati terroristici, le regole del Ministero si fanno più complesse, oltre al passaporto devo chiedere e controllare i permessi di ingresso, poi i supplementi di documentazione, poi i permessi di lavoro. Quando, dopo circa una settimana (nel gioco), arriva l’emissario di un’organizzazione terroristica a propormi di collaborare con loro per provare a rovesciare il regime, non mi chiedo Voglio arrivare il finale in cui aiuto i ribelli o voglio arrivare al finale in cui sono fedele ad Arstotzka?, ma mi chiedo in che modo la mia famiglia ha più chance di sopravvivere: pagheranno, questi ribelli? Oppure: lo Stato mi pagherà, se faccio il delatore?

Il punto su cui insistono molte recensioni di Papers, please è che difficilmente si può definire tutto questo divertente. A me sembra che il concetto di divertimento sia difficile da definire, molto relativo (il grind di World of Warcraft, o di qualunque RPG, o anche di Candy Crush Saga, non è meno ripetitivo e usurante che controllare passaporti virtuali) e forse anche pericoloso, soprattutto in un momento in cui si parla di free-to-play, di monetizzazione, di core loops del divertimento descritti in termini molto vicini a quelli dell’assuefazione alle sostanze stupefacenti. Mentre il mondo dei videogiochi si orienta verso il farci perdere più tempo possibile con esperienze divertenti, totalmente innocue, e potenzialmente estendibili all’infinito, Papers, please è un’esperienza significativa, a tratti sgradevole, e che siamo contenti di vedere finire: la stessa cosa che potremmo dire di un bel libro, e di pochissimi videogiochi.