In un Grande Paese una cosa sola non deve mancare: il lavoro. Lo dice pure la nostra Bellissima Costituzione: in Italia devono tutti lavorare se no sono cazzi (Art. 1). Poi certo, noi di Gioca Giuè abbiamo la vocazione della disoccupazione militante (tranne pipboy, che è un mentecatto, e TheGems aka “Valerio Staffelli”, che è invischiato con la massoneria e pure volendo non ne può uscire se non da morto), ma infatti non è un caso che la maggior parte di noi non risulti iscritto alle varie anagrafi eccetera eccetera, non ve la sto a spiegare adesso.
Tuttavia, e questo non succede solo in Italia ma in tutto il mondo, esiste un grosso problema che dà in culo alla nostra Bellissima Costituzione (Art. 1, ma anche Artt. 2, 3, 4, 13, ecc), ovvero il progressivo MARCHIONNISMO del nostro tessuto produttivo. Automazione, delocalizzazione, taglio dei salari, esuberi ma anche sperequazione delle risorse, backlog produttivi, backlog nella coda di Steam, ma anche e soprattuto la caccia alle terre rare, i metalli preziosi che stanno finendo, tipo l’elio, che dopo l’ennesima “cacata da riccardoni a Sanremo” (cit. DR) è sempre più scarso.
Certo, a noi piccoloborghesi che “lavoriamo da casa” – e qui voglio, caro lettore, che ti immagini un Copons che, mentre si riguarda The Sopranos sul divano di casa sua ruttando IPA, compone un’email strusciando su SwiftKey la punta del cazzo, spiegando ai suoi colleghi che è oberato di lavoro – non importa più di tanto: in fabbrica ci lavorano solo i poracci, in auto non ci va più nessuno, e sti cazzi che si ammazzano per il coltan in Congo – quelli so’ negri! Insomma tutti questi problemi non ci riguardano perché in fondo ciò che non colpisce non dico il mio vicino, non dico mio fratello ma ME PERSONALMENTE e IN QUESTO PRECISO ISTANTE non è rilevante, non è preoccupante e sicuramente non merita di distrarmi dal mio backlog di Steam.
Come riportarci quindi sulla terra, come insegnarci una cosa fondamentale e cioè che il marchionnismo è divertente, il marchionnismo funziona, il marchionnismo ci salverà anche laddove noi dovessimo essere gli unici Sergi Marchionni su un pianeta alieno? Entrando di soppiatto proprio nel nostro backlog di Steam con una perla di gestionale, Factorio appunto, e rubandoci le poche ore che abbiamo a disposizione nella nostra vita da disoccupati in vacanza.
La premessa di Factorio è esattamente la stessa della vita reale di Sergio Marchionne (the Italian Elon Musk): noi, alieni su un pianeta inospitale, abbiamo bisogno di distruggerlo e prosciugarne le risorse al fine di costruire un razzo che ci riporti sul nostro pianeta natale. E quindi se all’inizio cominciamo timidamente a picconare dei depositi di carbone, a segare un alberello e a insegnare agli esseri inanimati chi è il vero padrone del cazzo di universo, presto ci ritroveremo a capo di un groviglio frattale di nastri trasportatori, treni automatizzati, robot semideficienti e soprattutto FABBRICHETTE. In pratica, la visione avveniristica di Sergio Marchionne per la Romania e la Polonia, ma con una sola persona (lui).
Nello spirito dei gestionali si comincia con poco e niente, con un carretto di gelati e una canzone in testa, e si comincia a fare le cose a mano: prendi un poco di risorse, costruisci una trivella, costruisci una forgia, fai dei piatti di ferro, devi prendere un sacco di carbone, Raul Carbone ovunque, perché quello – beautiful clean coal del Montana – sarà l’unico carburante per un po’. E come in Sim City, con visuale a volo d’uccello (lol), zummi fuori e hai la mappa con le cose importanti: dove sei, come stai, chi ti conosce, ma anche la rete elettrica, la rete logistica, e soprattutto l’inquinamento. L’inquinamento?? Mannaggia Gesucristo! Non ci avevo pensato. E certo, sei Sergio Marchionne, mica Carola Rakete.
E infatti, man mano che la nostra base si espande e aggiungiamo fabbriche, motori a vapore, raffinerie di petrolio e server farm di Aruba, una minacciosa nube rossa di inquinamento si espande nella mappa in maniera inesorabile. Certo, se questo fosse il mondo reale ce ne fotteremmo alla grandissima, al massimo è un problema per i nostri figli (nostri di chi poi?) o per le tartarughe marine. E invece, in Factorio l’inquinamento sveglia “I CATTIVI”, i cosiddetti biters, ovvero gli abitanti del luogo che si facevano tranquillamente i cazzi loro e non avevano assolutamente bisogno di vedere Sergio Marchionne né i suoi grovigli di nastri trasportatori alle porte delle loro modeste, ma dignitosissime dimore.
Non appena la nube rossa raggiunge i loro nidi, questi decidono che è ora di venire a citofonare. “Scusi, lei spaccia?” paiono voler dire mentre cominciano a mordere ovunque e a scatarrare sui muri. Ovviamente il gioco ci offre numerose soluzioni che non passano assolutamente dalla riduzione dell’inquinamento e la ricerca di efficienze energetiche, bensì dall’unico strumento che il Marchionnismo è in grado di utilizzare per risolvere i conflitti: le mazzate. Avremo a disposizione pistole, mitragliatrici, torrette, lanciafiamme e bombe ammano per insegnare questi stronzi alieni che siamo padroni a casa nostra loro. Avanti un altro!
Factorio si basa sulla premessa assolutamente realistica che, se anche è vero che localmente le risorse sono finite, il mondo è infinito; prosciugato un giacimento, esaurita una vena, industrializzata un’intera steppa si può sempre andare un po’ più a est, un po’ più a nord, raramente più a sud per motivi che non vi devo sicuramente spiegare se siete mai stati al di sotto di Perugia. Think globally, act locally! E distruggi più cose possibili.
Ci sono vari modi di affrontare ogni missione (cioè La Missione) in Factorio. I giocatori alle prime armi cominceranno a fare timidi passi espansionistici cercando di collegare tra loro i (pochi) sistemi estrattivi e produttivi con un numero assolutamente irragionevole di nastri trasportatori. E’ la nascita della cosiddetta spaghetti base, una medusa di cingoli e piastre che spesso sperpera risorse, spazio e tempo; è una base puramente incrementale, Markoviana se mi passate il termine, in cui ogni mossa viene fatta in funzione del prossimo obiettivo e senza un piano organizzativo in mente. In altre parole: la storia di Olivetti sotto la gestione di De Benedetti. Dopo un po’ di spaghettate, il giocatore accorto comincia a capire che forse è necessario pianificare. E allora, pianifichiamo: creiamo il cosiddetto main bus, una enorme autostrada di nastri trasportatori in direzione nord-sud che portano materiali (le prime trasformazioni delle materie prime: piastre di ferro e di rame, circuiti, eccetera) e da cui è possibile, alla bisogna, deviare singoli nastri al fine di alimentare moduli produttivi disposti sull’asse est-ovest. Ingegneria pura, in uno spirito soluzionista che tanto piace a voi cazzo di nerds e che by design non tiene conto del sistema più grande in cui tutto ciò si svolge (il pianeta, i biters) né, essendo tutto automatizzato, dei bisogni delle persone, che non ci sono. Ogni cosa è illuminata dalla luce della produzione e dell’efficienza. L’unico essere umano presente – Sergio Marchionne – ha la responsabilità demiurgica di guidare un processo che è a pochissimi passi dall’essere autosufficiente. Come disse non ricordo chi su internet, se gli idraulici o i saldatori ragionassero come i Grandi Innovatori della Silicon Valley, suggerirebbero che ogni problema del mondo, dalla sanità pubblica all’istruzione all’accesso alle risorse si possa risolvere saldando due pezzi metallici assieme, o aggiungendo tubi. E questo è esattamente ciò che Factorio ci invita a fare, calcolando tutto al millimetro, nell’agone limitato dei problemi che un pianeta infinito i cui abitanti ci stanno pesantemente sui coglioni ci permette di affrontare.
Factorio si può apprezzare in vari modi: può essere un simulatore di fabbrichetta da giocare in solitaria (stile Italian Elon Musk); si può giocare in cooperativa (stile Italian Famiglia Agnelli). La comunità ha già prodotto quantità di mod ingestibili. Può, come tutti i giochi sandbox a mappa infinita, permettere ai disoccupati (quelli veri) di disegnare fabbriche al massimo dell’efficienza implementando concetti di ricerca operativa che fanno sembrare rodatissimi paradigmi industriali come Just In Time e Kaizen più simili alla pianificazione per mezzo della caffeomanzia (aneddoto reale: per un po’ di tempo ho frequentato – in maniera puramente professionale – una persona che un giorno mi rivelò con sicumera che si serviva dei tarocchi per prendere le decisioni più importanti nella propria vita. Questa persona ha preso un MBA a Yale. Questa persona è tutt’ora disoccupata). Questi mentecatti – stile pipboy – si scambiano sui siti di internet i blueprints, ovvero progetti più o meno intricati con le configurazioni ottimali per costruire la Fiat Uno già truccata dayone. Fate una ricerca su internet e troverete paginate di Reddit e Steam communities in cui la gente si scambia pareri tecnici sulle loro fabbrichette, su quanti e quali nastri trasportatori sia utile avere, sulle proporzioni esatte da mantenere tra produzioni di rame e ferro per raggiungere il collasso ambientale prima possibile. Qui lo dico e qui lo confermo: se queste persone fossero a capo della logistica nell’aeroporto di Milano Malpensa, nessuno avrebbe più bisogno di prendere un aereo. Fortunatamente, grazie a un intricato sistema di simonie e nepotismi vari la logistica dell’aeroporto di Malpensa resta saldamente in mano a una congerie di persone le cui capacità sommate ammontano più o meno a quelle di un Tricky Traps scarico, ma con un cuore grande così. Prima gli italiani, che cazzo!