Gioca Giuè

Il blog di videogiuochi che non stavate aspettando altro

In sostanza avevo questo Mega Drive dal Natale prima e l’avevo acceso per la prima volta tipo l’altroieri, che era Aprile – perché? Perché ero piccolo ed i miei me l’avevano regalato (VI VOGLIO BENE, MIEI!) al posto del Tirannosauro di Jurassic Park. Io Jurassic Park l’ho letto il libro tipo a 11 anni. O anche 7, se fa più scena. Comunque avevo chiesto – ed avuto-  la Jeep di Jurassic Park e ben due velociraptor di Jurassic Park, anche se le proporzioni dei modellini erano sbagliate rispetto ai ritrovamenti archeologici, comunque, vabbè, è che ci tenevo a queste cose.

In realtà la paleontologia ce ne restituisce un'immagine diversa
Non si legge bene ma c’è scritto “Dino-Strike Slashing Jews!” Giuro.

Ed avevo avuto – non chiesto – il Mega Drive, sì. L’avevo scartato, classificato come non-tirannosauro gommoso e l’avevo rimesso lì, nell’angolo, dietro i festoni argentati. Mio padre non sapeva che sarei diventato un nerd (TI VOGLIO BENE PAPA’!): poteva fare il tris di pupazzetti di dinosauri (VI VOGLIO BENE DINOSAURI!) e farmi divenire uno sfigato con i pantaloni a costine e gli occhialoni spessi e invece ha piazzato l’elemento fuzzy della console nella mia carriera pre-pre-adolescenziale, così, infilato in anticipo in un Santo Natale dei ‘90.

Quando avevo il Mega Drive la colonna sonora era su vinile.
Hit Mania Dance 1992.

Erano appunto alcuni mesi dopo Natale ed io avevo deciso di farlo contento provando a smanettare con quella scatola seminascosta dietro il divano. Senza farla lunga, il gioco che c’era allegato era Another World e io non ci capivo un cazzo, cosa che ha rischiato di salvarmi nuovamente dal divenire un nerd – ma mio padre, dopo avermi visto alle prese, joypad in mano, sedia della cucina impagliata e durissima sotto il culo, con un gioco che restava sempre allo stesso quadro (il primo) e che mi creava attacchi di ansia e depressione difficilmente gestibili, decise di ampliare il mio parco titoli comprandomi Out Run, lasciandomi prendere la mano con il mondo delle console con una più semplice, machista e sanamente eccitante corsa di macchine con bregne bionde fatte di pixel duri e sfacciati in dotazione. Fatto sta che io non mi sono mai sentito a casa come nella pista nel deserto, un tracciato pazzesco che ti faceva respirare l’aria rarefatta dei dischi dei Pontiak, in pratica (e a posteriori) con interazioni tra pixel grigio/gialli e sprites dalle tinte violette tramonto da sturbo e con la promessa ciclica, ricordata dai checkpoint sempre più sudati, di arrivare finalmente alle alture modellate dal vento che rimanevano invece, eterne, incollate all’orizzonte, come ideali e traguardi onirici, come quella tridimensionalità che non immaginavamo allora poter arrivare.

Menomale che The Desert is a Circle: El Topo docet.
Le alture giù in fondo preludono ad esperienze videoludiche disturbanti.

Avevo intenzione di spiegare come tutte le mie riflessioni metafisiche ed escatologiche fossero cominciate con Another World, però, anche se in effetti probabilmente il deserto di Out Run ha avuto la sua parte – ma di questo ne parleremo semmai la prossima volta; oggi vorrei piuttosto soffermarmi sul suddetto platform misterioso e incongruo, capitato per chissà quale caso in bundle con il mio Mega Drive plasticoso, la cui introduzione animata è stata probabilmente la clip più vista da me durante uno o due mesi di dipendenza quotidiana, al limite dell’ossessione compulsiva, di quell’anno di pre-pre-adolescenza, battendo per numero di replay (nel vero senso della parola) persino molti delle clip porno in rotazione durante la mia pre-adolescenza, adolescenza e post-essa. Non la skippavo. Eppure stimo di aver giocato il primo livello di Another World perlomeno (con calcoli approssimativi) 360 volte. L’altro punto notevole è che, sebbene dopo qualche settimana io abbia scoperto, in una libreria di Portland, Oregon, USA, in viaggio con tutta la famiglia, l’esistenza dei cheat raccolti in fantastici libri di cheat per Mega Drive, dei listati pieni di magiche password e combinazioni di tasti che dischiudevano finalmente la libertà di giocare il livello che cazzo mi pareva senza dover perdere ore ricominciando migliaia di volte daccapo e rompendo bicchieri per il nervoso, cheat che mi ero dunque trascritto, di nascosto dagli inservienti della libreria, sui bordi della Lonely Planet di mia mamma, con la calligrafia incerta degli studenti elementari, beh, sebbene avessi i cheat, io Another World non lo cheattavo. Perché i livelli di Another World dopo il primo non avevano il peso e la semplicità perversamente rivelatoria del primo, geniale, quadro, quello che parte diretto dopo l’abusato filmato introduttivo. Another World cominciava così: un uomo medio, sfigato, tipo l’archetipo “canadese sfigato con le spalle curve”, perlopiù roscio, dall’abbigliamento indie-casaccio e le scarpe color pelle (o forse aveva i piedi nudi, dai), in una specie di enorme grotta le cui pareti aperte lasciavano vedere, in lontanza, proprio lui: lo sfondo della pista desertica di Out Run. Another World finalmente ti portava lissù, nelle mese messico-aliene, in quel tramonto vagheggiato durante infinite corse tra i checkpoint, cercando di fottere Einstein e il Tempo, stronzo, che finiva sempre mentre pensavi di averlo passato, il checkpoint, invece no. E questo tizio sfiga-canada potevi farlo camminare, correre, o dare piccoli e timidi calci, e basta.

Vermi penduli
Un indie-sfigato nei grottoni, e anche roscio. Chemtrails nel cielo. Altroché.

Non importano i livelli successivi con la storia, le pistole laser, le trappole, i nemici: all’uscita dalla caverna platonica, verso le montagne del sogno, il nostro alter-ego roscio è un uomo senza qualità e senza abilità, lento nel rispondere, capace di andare in sole due direzioni – destra e sinistra, nonostante il joypad ne concedesse persino quattro, o otto addirittura – e la sua unica arma di difesa è un timido calcetto dato con una mossa da frocetto (VI VOGLIO BENE, CALCETTI FROCETTI!), con quella rotazione del busto e degli arti superiori che, mentre cerca di colpire con meno piede possibile tutto il corpo si schifa e ritrae. Ora voi vi chiederete dove io abbia visto tutto questo, in un gioco che probabilmente componeva il calcetto frocetto con due singoli fotogrammi in successione, ma io vivevo dentro gli sprite, perché allora giocare comportava ancora un enorme uso dell’immaginazione per costruire i contenuti con cui riempire gli intervalli di caricamento, le animazioni scattose, i dettagli inesistenti. Ad esempio, il roscio non aveva faccia. Ma il fascino di questo primo livello non era tanto nel protagonista quanto nell’odio profondo che avevo sviluppato verso di lui e la sua medietà non-eroica. Quattro o cinque quadri componevano un percorso obbligato in cui i nemici principali erano l’enorme tigro nero cui si poteva solo scappare facendo avanti e indietro, in un geniale sfruttamento degli stessi ambienti per triplicare lo spazio di gioco, e i vermi. Togliendo l’ansia finale dello sfuggire alla tigre aggrappandosi a liane e correndo più veloce che si poteva, la bellezza vera erano proprio loro, i vermi penduli. L’uomo ha infatti un terrore naturale per le cose pendule (e di questo ne parlerò approfonditamente), ma insomma basta pensare ai baccelli alieni, i bozzoli di ragno sui soffitti bassi che si muovono quando apri la porta, i bacarozzi di Metal Slug, le piante con liane e protuberanze appese e magari appiccicose, le escrescenze dei galli, le processionarie. Tutti questi oggetti appesi, pendenti, ma soprattutto penduli (ovvero con una certa massa e peso, ma precari nel loro essere trattenuti dal cadere, in balia del vento e della gravità, passivi) ci riportano alla mente la casualità del pericolo e l’incertezza del destino, e ogni volta che un oggetto pendulo finalmente si stacca e cade noi ci troviamo a provare quella soddisfazione liberata mista ad un terrore ancestrale che accompagna la visione di altri scroti maschili e/o l’atto defecatorio molto colloso, l’attesa del distacco e della caduta. Ma non vorrei entrare in dettagli V.M. 6 (che ancora usano il vasino).

fa schifo perché è appeso per un sottile filamento
CHE SCHIFO PENDULO!!!

Il fatto era che questi vermi penduli erano solo silhouette ombrose sull’idilliaco sfondo tramonto violetto, e pendulavano, lenti, per poi cadere con uno splat orrendo (che magari mi immaginavo io), e muoversi sempre lentissimi verso il povero indieroscio, la cui unica arma – il suddetto c.f.-  non bastava spesso per coordinazione o tempismo a schiacciarli ed evitare di triggerare il mio inconscio traguardo finale: la cut scene. Perché in Another World la morte era, per la prima volta nella mia vita, inevitabile. Non era una lotta fino alla fine, fino all’ultimo respiro, goccia di sangue e sforzo muscolare, non si aveva il controllo fino all’ultima vita e/o cuoricino. La Morte arrivava per un solo errore, o talvolta per semplice disattenzione o lentezza di responso elettrico; una volta giunta, gli ultimi lunghissimi secondi  di vita del roscio erano scritti e scriptati, nell’inconfutabile codice di programmazione, in un’animazione girata alla De Palma che mi liberava dalla frustrazione del controllo e dell’immedesimazione e mi garantiva uno sguardo esterno su uno snuff movie in cui l’odiato sfigato finalmente crepava. E mentre quando il tigro nero lo acchiappava ciò che si vedeva erano graffi insanguinati e in generale un clima di violenza animalesca, la Morte per Verme era su un altro piano di sublime perfezione: il verme si inarcava pigramente, grasso e gonfio, i fasci di muscoli della schiena tesi in posizione d’attacco, e da sotto il suo muso senza volto (anch’esso) spuntava un unico dente piramidale grigio-bianco, dal cui forse colava una goccia di veleno traslucido (che forse mi inventavo), e il verme poi, stanco di stare tutto arcuato, ricadeva verso il basso proiettando stancamente l’unico dente verso la gamba immobile dello scemo coi pantaloni di velluto, lacerati dall’attacco inerziale che graffiava irrimediabilmente anche la pelle sottostante. E il tizio crepava di veleno per colpa di un verme pendulo e scazzato, senza faccia e con un solo dente, che OGNI VOLTA riusciva a ammazzarlo con la stessa pigrissima mossa, senza che il nostro scienziato canadese potesse, tipo, scansare la gamba marroncina, neanche con un apposito Quick Time Event – era troppo presto, per fortuna. La cut scene era montata da paura, con stacchi e zoomate drammatiche, e vederla decine e decine di volte mi proiettava in un limbo sicuro ed accogliente, in cui assistevo vile e malizioso all’inevitabile dipartita, tra spasmi e lamenti strozzati, del fisico Lester. E pensavo che era giusto così, e che lontano da queste alture modellate dal vento e irrorate di una luce violetta, giù nel deserto circolare, un vero macho si godeva la sua Ferrari spigolosa con accanto una bionda perennemente di spalle, lontano da questo mondo spoglio e crudele. Ero in combutta con le cut scenes della Morte per uccidere infinite volte la sfiga. (VI VOGLIO BENE VERMI!)

La Bionda
Vita contro la Morte. Bionde e Ferrari, Start e loop contro il Tempo. In copertina la Bionda ammicca.

PS: Qui potete godere metafisicamente: Lester muore in tutti i modi possibili su youtube.


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